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Milano - venerdì, 27 Settembre 2013
"Io ho sbagliato ma mio figlio non deve pagare con me"
Una giornata nell’Istituto a custodia attenuata per detenute madri.
Icam, Sanela Osmanovic - Milano - 10-05-2013 -

(KIKA) - MILANO - ESCLUSIVO "Io ho sbagliato, lo so, ma mia figlia non deve pagare al mio posto. Lontano da me soffrirà troppo". Chiara ha 28 anni e dieci figli, è nata in Italia ma ha girato l’Europa, come spesso succede a tante donne e uomini di etnia rom. Il suo viaggio si è interrotto a Milano, perché il marito è detenuto a San Vittore e lei, con le due bambine più piccole di due e tre anni si trova all’Icam, il primo Istituto a custodia attenuata per detenute madri d’Italia.

Nato nel 2006 su iniziativa dell'ex assessore provinciale ai diritti e alle tutele Francesca Corso e di Luigi Pagano, che aveva diretto San Vittore per quindici anni, l’Icam voleva dare un’infanzia senza sbarre ai figli delle detenute e sembra esserci riuscito, visto che sette anni dopo rappresenta ancora un punto di riferimento per il presente e il futuro. L'ex guardasigilli Paola Severino, durante una visita nel 2012, lo ha definito un modello esemplare, da esportare e da ampliare, un piccolo miracolo all'interno delle carceri.
Nonostante le pareti colorate e l'atmosfera serena addolcita da risate infantili e abbracci materni, però, l’Icam è una struttura penitenziaria a tutti gli effetti e ci sono alcuni momenti in cui questa realtà si manifesta in tutta la sua durezza. Il più doloroso è quello del distacco madre-figlio: tra poche settimane toccherà a Chiara viverlo in prima persona. La sua bimba più grande sarà trasferita in una comunità milanese, dove potrà riunirsi con gli altri fratelli. È una separazione che, da madre, non riesce ad accettare e sulla quale le educatrici stanno lavorando da mesi. “Purtroppo abbiamo vissuto tante situazioni simili negli ultimi anni perché si è allungata la permanenza in carcere delle madri – ha precisato la direttrice di San Vittore Gloria Manzelli – ma resto dell’idea che l’obiettivo dello Stato debba essere quello di far uscire i bambini dal carcere, non di costringerli a rimanervi più a lungo - ha concluso, nell’esprimere perplessità sulla legge 62/2011 - la normativa ha alzato da tre a sei anni l’età massima per rimanere negli Icam e in case famiglia protette, ma come fa un bimbo di quell’età a vivere nella nostra struttura? Ha esigenze totalmente diverse da quelle che noi prevediamo”. Su questo punto anche la responsabile dei progetti educativi Marianna Grimaldi è d’accordo: così com’è oggi, l’Icam non è strutturato per bambini più grandi. “Abbiamo avuto figli di 4 anni e mezzo e le difficoltà si toccano con mano – ha spiegato - Sono problemi di spazio, educativi e di relazione con l’esterno. Oggi, nonostante siamo l’unico istituto in Italia, non siamo in grado di adempiere la normativa. Quando la Regione si organizzerà con nuovi ambienti nido, potremo pensare a come occuparci dei più grandi”.
Organizzare la giornata di dodici detenute e sedici figli, infatti, è tutt’altro che facile: insieme a sedici agenti di polizia penitenziaria sempre in borghese, ci sono cinque educatori più il personale medico e volontario, come i cosiddetti “nonni” del Telefono azzurro, che vanno a prendere i bimbi alla scuola materna e li portano al parco nelle giornate di sole.
Oltre alle persone, un ruolo fondamentale lo gioca la sinergia tra istituzioni: l’amministrazione penitenziaria di San Vittore, la Regione Lombardia, la Provincia che fornisce lo stabile e il Comune, che offre i servizi territoriali ed educativi. Se uno di questi ingranaggi salta, si rischia il corto circuito, come è successo quando il Comune, nel predisporre un taglio di bilancio, ha sospeso per un mese il servizio degli educatori, poi ripristinato.

Uno altro elemento fondante del progetto è il modello organizzativo, che si basa su attenzione al bambino, automantenimento e formazione. Ne fanno parte la routine per la gestione di qualsiasi casa come la pulizia, la preparazione dei pasti e il bucato; i corsi per favorire il reinserimento sociale come l'alfabetizzazione per le mamme straniere; i laboratori di sartoria e cucina per imparare un mestiere e altri di rieducazione, come l'Illustrafiabe, nato per aiutare le detenute a riflettere sulla maternità e l’infanzia.

L'Icam, anche esteticamente, è ben diverso da quello che ci si aspetta di trovare in un istituto penitenziario: le sbarre alle finestre di questo edificio di proprietà della Provincia in via Macedonio Melloni somigliano a normali inferriate, così facili da trovare alle finestre dei palazzi milanesi; le telecamere ci sono ma passano inosservate; i muri colorati hanno qualche imperfezione che testimonia la mano inesperta delle detenute; le stanze sono animate da giocattoli e personalizzate con foto appese alle pareti. C’è una sola porta blindata, separa la zona notte e viene chiusa alle 22. Non si sentono altre serrature scattare durante la giornata. Gli unici rumori sono quelli dello chef che gestisce i lavori in cucina mentre si prepara un servizio catering, della sarta che spiega come ricamare un vestitino o fare un orlo, della tv accesa nella sala ricreativa, della lavatrice che le detenute fanno partire a ogni ora del giorno. Ci sono poi i vagiti dei neonati e le corse dei bambini più grandi.
 “Dal 2006 a oggi sono passate in queste stanze oltre 400 donne”, ha ricordato Grimaldi, “e ognuna di loro ha lasciato un segno, dalle decorazioni sui muri ai nomi dati alle camere. All’inizio era un progetto pilota e di errori ne saranno anche stati fatti – ha concluso – ma non avevamo modelli da seguire, né in Italia né in Europa, così siamo partiti dalle nostre intuizioni. Nel complesso il progetto è positivo: lo si vede dall'atmosfera serena, che ricorda una comunità più che un carcere ma spero tanto lo possano dire, un domani, i bambini stessi”.

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