venerdì, 8 Luglio 2016

Giudice e condannato legati da un carteggio che dura da 27 anni

di Luca Giampieri
La prima lettera spedita dal magistrato dopo avere pronunciato la sentenza di ergastolo.


(KIKA) – PINEROLO – ESCLUSIVO – Se suo figlio fosse nato dove sono nato io, adesso sarebbe lui in gabbia; allo stesso modo, se io fossi nato dove è nato lei, farei l’avvocato e magari sarei anche bravo.

Queste le parole che, 27 anni fa, Salvatore M. rivolse al giudice che pochi giorni dopo lo condannò all’ergastolo nell’ambito del processo alla mafia di Catania, secondo per numero di imputati solo al maxiprocesso di Palermo.

“242”, ricorda Elvio Fassone, ex magistrato in pensione che nel novembre del 1988 pronunciò la sentenza di colpevolezza di Salvatore per l’omicidio di 15 persone nella guerra tra clan.

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Quella riflessione, pronunciata dal detenuto in un incontro a margine del processo, fu interpretata da Fassone come una tacita richiesta di figliolanza spirituale. Il giorno dopo la sentenza, ancora emotivamente scosso, decisi di scrivergli una lettera alla quale allegai un libro”. Era Siddhartha, di Hermann Hesse. “Aprendolo, lessi i seguenti versi: ‘Nessun uomo è mai totalmente Nirvana o totalmente Samsara. Mai totalmente santo o totalmente peccatore’. Pensai che fosse appropriata”. Quel gesto costituì l’innesco di un carteggio che dura da ventisette anni.

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Oltre 300 lettere, circa una al mese, in cui Salvatore ha scritto all’uomo che ne sancì l’ingresso nella “tomba dei vivi” – così Fassone definisce il carcere – raccontando la sua vita tra speranza e depressione. Uno scambio epistolare assiduo, interrotto solo in due occasioni: “La prima quando, in seguito alle stragi di Capaci e via D’Amelio, Salvatore fu sottoposto al regime del 41 bis. Successivamente mi scrisse che aveva sospeso il carteggio per non raccontarmi ciò che gli stava accadendo. La seconda quando io subii un intervento chirurgico d’urgenza e non potei avvisarlo”.

In mezzo il dolore per la separazione dalla donna che rimase al fianco di Salvatore per vent’anni seguendolo da un carcere all’altro: “Presidente, la scorsa settimana ne ho combinata una delle mie: mi sono impiccato. Un bravo agente è arrivato in tempo a staccarmi. Mi scusi, non lo farò più”. O la fiducia ripagata di Fassone, il quale, durante un permesso eccezionale, concesse a Salvatore di presentarsi al capezzale della madre malata senza manette e con la scorta ad attenderlo fuori dal portone.

Due esempi di drammatica umanità racchiusi nel libro Fine pena: ora, dove il giudice apre al pubblico una finestra sul mondo del condannato. Non credo di essere troppo tenero con Salvatore – osserva Fassone – Mi chiedo quanti detenuti abbiano scontato 38 anni di carcere. Credo che l’uomo non sia mai tutto nei gesti che compie.

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